Voci dal carcere
“e non è mai così feroce la sete
come la luce che ci separa
il tuo corpo ammassato sulla sedia
il mio che si allontana
carne a bande alterne
oltre la cancellata”
Tra il 2005 ed il 2006, insieme alla mia associazione culturale, ho partecipato ad un progetto che prevedeva la conduzione di un laboratorio di poesia nell’Istituto Penitenziario della mia città.
Questi sono gli appunti che scrissi il primo giorno di ripresa del laboratorio in carcere, dopo una pausa durata molti mesi.
Li trascrivo qui quasi integralmente:
“E così questa mattina siamo tornati in carcere.
Già solo il percorso per arrivare all’A.S. ti allontana dal mondo, per ogni porta che si chiude. L’Alta Sicurezza. Ci spiegarono, quando iniziammo ad andare come volontari, che quei detenuti lì non vedevano mai nessuno, e che saremmo state le prime persone che incontravano dopo anni di isolamento.
Dei nomi ricordo solo A., che invece ricordava molte cose di noi, M., che è straniero e l’anno scorso si vergognava di parlare in italiano, L. perché ha due occhi bellissimi e V., che nei vari Istituti Penitenziari in cui è stato ha raccolto le poesie scritte da alcuni detenuti e le ha fatte rilegare in un libro. Ce ne sono di veramente notevoli.
Una è questa, che è poi quella che abbiamo letto oggi insieme a loro, e di cui ci hanno regalato una copia (peccato che nessuna delle poesie contenute nel libro porti la firma di chi l’ha scritta):
UOMO
In nome di qualcosa hai seppellito quella
parte del tuo io e ne calpesti, inconsciamente
la lastra sepolcrale
l’epitaffio mi svela che un’anima immortale
è stata barattata, a poco a poco, con un auto
di grossa cilindrata, col posto in prima fila in un teatro,
con una bella fetta di potere che ostenti, compiaciuto
di essere arrivato.
Dimmi uomo che senso ha perdere la propria identità
A., L. e M. c’erano anche l’anno scorso.
Dicono che ci stanno aspettando da novembre. Ma non fa niente, loro ci sono abituati, dicono.
Facciamo un breve giro di presentazione, perché dei nove allievi presenti in classe ne conosciamo soltanto tre. Parliamo un po’ di noi, di come nelle presentazioni si dica spesso, tra le prime cose, la professione, come se la nostra identità fosse quasi tutta lì. Poi passiamo la parola.
V.: Cosa dobbiamo dire? Siamo detenuti.
Risatine.
F.: Forse siete anche qualcos’altro, oltre che detenuti.
V.: Io sono un detenuto a tempo pieno.
Risate.
L.: Io invece sono un detenuto part-time.
Altre risate.
Qualcuno ci dice da dove viene, qualcuno parla dei figli che ha lasciato a casa.
I libri che gli abbiamo regalato nel 2005 non ci sono più, almeno non in biblioteca. A. dice che il suo ce l’ha lui (è bello pensare che un nostro libro ora gli appartenga), e che lo custodisce nella sua cella. Vorremmo portargliene degli altri, anche il nostro tesoriere F. fa di sì con la testa (e quindi si può fare), ma non tutti i libri vanno bene, dicono.
V.: Quelli con le copertine di cartone rigido, ad esempio, non vanno bene.
A.: Nemmeno i libri d’evasione.
Risate.
N.: Tutti i libri di poesia sono libri d’evasione.
Ancora risate.
Il clima è disteso ed emozionante, come quello dei primi incontri.
Leggiamo insieme alcuni poeti, sia italiani che stranieri. La poesia della Lamarque sul condomino morto è troppo triste, quella della Szymborska sul curriculum è troppo lontana dalla loro esperienza, mentre sono molto toccati da quella di Sanguineti:
vengo, con la presente, a te, per chiederti formalmente di esentarmi d’urgenza
dal comunicare, con te, per telefono: (io non posso battere zuccate disperate,
contro il primo muro che mi trovo a disposizione, ogni volta, capirai,
appena mollo giù il ricevitore):
(perché, mia diletta, io non saprò mai
separare, stralciandole, le tue parole, a parte, dai tuoi gomiti, dai tuoi alluci,
dalle tue natiche, da tutta te): (da tutto me):
sola, la tua voce mi nuoce
L.: E’ proprio quello che succede a noi quando telefoniamo.
V.: Sono rapporti senza contatto fisico, a cosa servono? E’ come un albero che non dà frutti.
L.: Non sono d’accordo, è amore anche così.
B.: Forse il pensiero che c’è qualcuno che ci pensa, ci tiene nella sua testa, comunque ci salva.
Alla fine dell’incontro mi chiedono di leggere un’altra poesia, scritta da un detenuto nel 2003 e che s'intitola "La gabbia".
Ricordo solo 4 versi:
"Il primo anno il corpo è dentro
e la mente fuori
il secondo anno anche la mente
è dentro
....."
Ho dimenticato cosa accade nel terzo anno, e nel quarto, e nel quinto...
Sono contenta di non lavorare in carcere, oggi me li sarei portati tutti al ristorante. Quando sono uscita, di nuovo all’aria e al sole, mi sono sentita in colpa per la mia libertà”.
Grazie di cuore per la tua testimonianza
barbara