GIOVANNI SARTORI: CONFLITTO D'INTERESSI

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INES TABUSSO
00sabato 1 aprile 2006 23:27

DA:
Il governo Berlusconi.
Le parole, i fatti, i rischi
Laterza, 2002

Conflitto d'interessi
di Giovanni Sartori

Del conflitto di interessi per antonomasia, e cioè di Berlusconi, si discute sin dal 1994. Il primo a sollevare il problema in sede legislativa fu nel maggio di quell’anno il senatore Gianfranco Pasquino con una proposta di un solo articolo che stabiliva la ineleggibilità in Parlamento non solo del rappresentante legale, ma anche di quanti effettivamente controllavano le imprese operanti in regime di concessione pubblica. Questa proposta era sacrosanta; ma si limitava a rettificare l’interpretazione secondo la quale la non-eleggibilità si applicava soltanto al rappresentante legale1. Nel caso di Mediaset l’escluso era dunque Confalonieri, non Berlusconi. La prima proposta organica sull’intero problema del conflitto di interessi fu presentata pochi mesi dopo, nell’estate del 1994, dal senatore Stefano Passigli, indipendente di Sinistra. In quel progetto Passigli prevedeva il ricorso alla formula del blind trust quando applicabile; e altrimenti la dismissione del bene «conflittuale».

Pertanto non è esatto che l’iniziativa della disciplina del conflitto di interessi sia stata di Berlusconi. Il progetto dei suoi consulenti di parte (i cosiddetti «tre saggi») è una controproposta recepita in un disegno di legge del governo del 2 novembre 1994. Le date parlano da sole. Proponendo il solo blind trust (senza menzione di dismissioni) Berlusconi arriva secondo con l’intento di parare il colpo.

I due testi (di Passigli riunificato con Pasquino da un lato, e di Berlusconi dall’altro) vennero esaminati nella commissione Affari costituzionali del Senato che votò con lievi modificazioni, a maggioranza, il testo Passigli inviandolo all’esame dell’Aula. Il Senato approvò quel progetto prima delle ferie estive del 1995. Restava la Camera. Ma a fine anno la legislatura venne interrotta e quindi si tornò a zero. Questa fu la migliore occasione per arrivare a una disciplina seria del problema; una occasione che non ripassò più.

Prima di procedere nel raccontare la vicenda è bene precisare che tutta la discussione è stata viziata, sin dall’inizio, da una esiziale ambiguità. Molti parlano ancora di ineleggibilità; ma il problema è di incompatibilità, non di ineleggibilità. Per il nostro ordinamento un italiano può diventare capo del governo, e a tanta maggiore ragione membro del governo, senza essere prima eletto in Parlamento. Per ricordare soltanto recenti esempi, sia Ciampi sia Amato non erano parlamentari quando sono diventati presidenti del Consiglio. Dunque, ripeto, il problema è di incompatibilità. Per esteso, è l’incompatibilità che determina la non-eleggibilità a cariche di governo (una precisazione tanto essenziale quanto spesso dimenticata). Che Berlusconi sia o non sia eleggibile in Parlamento è irrilevante. Il punto è che l’incompatibilità tra i suoi interessi privati e i suoi doveri e poteri pubblici vietano che Berlusconi possa diventare capo del governo (e anche, per taluni dicasteri, ministro).

Un’altra precisazione preliminare è che la questione non è sull’entità del patrimonio di Berlusconi. Beninteso quel patrimonio entra in questione se viola le regole anti-trust, e cioè le regole della concorrenza di mercato. Io sospetto che sia così; ma di per sé il punto non è la grandezza, per quanto grandissima sia, del patrimonio del Cavaliere; è, invece, la sua natura e la sua collocazione strategica. Io non criminalizzo la ricchezza, né ritengo che la politica debba essere vietata a chi possiede un impero economico. Si deve però vietare che l’impero economico si trasformi in un impero politico che cattura lo Stato. E il fatto è che Berlusconi sempre più massicciamente condiziona o controlla gli strumenti di comunicazione di massa e di formazione dell’opinione del paese. Il che significa che Berlusconi è in grado di dominare e di manipolare quel consenso politico al quale dovrebbe invece sottostare.

Riprendiamo il filo a ripartire dalla vittoria dell’Ulivo nel 1996. Nella XIII legislatura una maggioranza in grado di approvare il progetto Passigli in entrambe le Camere sicuramente esisteva. Sulla questione del conflitto di interessi anche Bertinotti marciava. Aggiungi che la Lega si era schierata, dopo la sua rottura con il governo Berlusconi, e più precisamente sin dal 30 gennaio del 1995, per una rigida disciplina del conflitto di interessi che recepiva la logica della incompatibilità. Il centro-sinistra ripresentò subito, nel 1996, la legge già approvata dal Senato della XII legislatura. Dopodiché nulla. Tutto finì lì. Perché?

Una prima spiegazione è che Prodi non voleva impegnare il suo governo nelle riforme costituzionali, e che D’Alema puntò tra la fine del 1997 e il settembre del 1998 su una soluzione d’insieme, concordata «trasversalmente» nell’ambito della Bicamerale. Questa spiegazione è convincente sino al fallimento della Bicamerale, ma non dopo. Inoltre spiega soltanto e soprattutto un errore tattico. Come ben puntualizzato da Passigli, la tattica più efficace

sarebbe stata per la maggioranza di centro-sinistra di approvare norme stringenti [...] in un ramo del Parlamento minacciando poi di rendere definitiva l’approvazione della legge nell’altro ramo a meno di un accordo in Bicamerale [...] sulla legge elettorale e sulla forma di governo. Se davvero D’Alema e la maggioranza si fossero posti in una ottica di scambio, sarebbe stata certamente questa la via da seguire2.

È certamente così. Invece fu seguita, per me inspiegabilmente, la via tutta diversa, e anzi opposta, di regalare a Berlusconi con un voto unanime della Camera la soluzione del blind trust. Incredibile ma vero. Nell’aprile del 1998 Berlusconi ottenne dalla sinistra l’avallo della sua proposta originaria, e così un testo che lo lasciava in pratica, immutato e indisturbato padrone di tutto.

Debbo così tornare alla domanda: perché? La spiegazione di fondo è che il centro-sinistra incespicò in se stesso e nella conflittualità interna che ne ha caratterizzato tutta l’esperienza di governo tra il 1996 e il 2001. Inoltre, e in particolare, la sinistra non ebbe il coraggio di forzare la mano sul conflitto di interessi – dopo il decesso della Bicamerale – per via della sconfitta subita nel 1995 nel referendum sugli spot televisivi. Passigli scrive così: «Quella sconfitta fu un vero e proprio trauma che convinse la leadership del centro-sinistra che lo scontro frontale con Berlusconi, permettendogli di atteggiarsi a vittima, lo avrebbe reso più forte»3. Passigli riferisce esattamente. Il che non toglie, a mio avviso, che in tutta questa partita la sinistra ha sbagliato due volte. Infatti, un primo sbaglio (impegnarsi in quel referendum) non ne rende necessario un secondo. A suo tempo io sconsigliai il referendum del 1995 osservando che la sinistra non poteva combattere contro metà della televisione (quella di Berlusconi) senza disporre con eguale forza e spregiudicatezza d’urto dell’altra metà, vale a dire della televisione di Stato. Ma perché perdere una battaglia referendaria doveva o avrebbe dovuto far perdere la battaglia in Parlamento di una maggioranza che lì aveva, per almeno due anni, tutti i numeri per vincerla? Se non facciamo ricorso alla nozione di stupidità io non saprei davvero come rispondere.

Comunque sia, la situazione dell’aprile del 1998 era questa: che non solo la sinistra aveva compattamente votato la non-soluzione del blind trust alla Camera, ma che l’avrebbe anche lasciata passare al Senato. Quella follia fu scongiurata soltanto dalla resistenza passiva del senatore Passigli, che era allora relatore della legge e che la bloccò in commissione, a Palazzo Madama, per circa due anni. Solo in sul finire della legislatura (la fine del febbraio 2001) la sinistra ebbe un tardivo risveglio e riuscì a varare in Senato una nuova legge sul conflitto di interessi che possiamo chiamare, dal nome della relatrice, legge Dentamaro. A quel momento era di tutta evidenza che la legge Dentamaro non poteva passare alla Camera, anche ma non soltanto per ragioni di tempo, e quindi che sarebbe decaduta.

Valeva la pena di impegnarsi in ritardo in una battaglia che tutti sapevano che sarebbe stata inutile? In linea di principio sì. Ma in sostanza no. Perché la soluzione Dentamaro continuava a battere la strada sbagliata del blind trust, stringendone le maglie ma restando, appunto, infognata nella formula sbagliata4. La formula del blind trust è – nel caso di Fininvest e Mediaset – soltanto una cortina fumogena. La fumigazione si può aumentare; ma il fumo resta fumo. E finché la sinistra è stata al potere questa elementare verità non l’ha capita. Il punto è importante perché a tutt’oggi chi nega la gravità del problema posto dal conflitto di interessi di Berlusconi si fa forte di questo interrogativo: se è tanto grave, perché la sinistra non l’ha risolto nei cinque anni nei quali ha avuto il potere di risolverlo? L’interrogativo non fa una grinza. Prima di controbatterlo si deve riconoscere che la sinistra merita un premio Nobel in insipienza. Dopodiché (ma solo dopo quella doverosa ammissione) resta il fatto che il problema sussiste.

Spieghiamolo. Il blind trust è una formula che si applica – lo dice la dizione, visto che blind è l’inglese per «cieco» – alle cose accecabili. Infatti, è stato concepito per i patrimoni finanziari tipicamente costituiti da pacchetti azionari che non sono, beninteso, pacchetti di controllo di una impresa ma soltanto investimenti in compra-vendita. Pertanto se io fossi un ricchissimo magnate che diventa presidente degli Stati Uniti, e se il mio patrimonio fosse del tipo sopra descritto, allora il mio problema (evitare che io favorisca i miei interessi privati in atti di ufficio) può essere risolto, appunto, da un «affidamento cieco». La gestione del mio patrimonio passa a una terza persona di sicura probità e indipendenza che venderà e ricomprerà titoli di borsa a mia insaputa. In tal caso io (qui finto presidente degli Stati Uniti) non ho modo di sapere quali siano i miei beni, e quindi non ho modo di favorirli.

Il caso di Berlusconi è del tutto diverso. Lui sa di possedere Fininvest, Mediaset, Publitalia ecc. e quindi sa benissimo quali provvedimenti (o inazioni) favoriscano i suoi interessi. Il fatto che la gestione del suo patrimonio – che resta in ogni caso stravisibile – passi a un terzo, e quindi la separazione tra proprietà e gestione, lascia questa realtà esattamente come è. Il che vuol dire che nel caso in questione la soluzione del blind trust è soltanto, dicevo, una cortina fumogena che si fa beffa del problema e ridicolizza chi è tanto ingenuo da prenderla sul serio. Pertanto nel caso di Berlusconi (e simili: quello di Murdoch, se entrasse in politica, sarebbe tal quale) la sola soluzione del problema è – come in ogni altra democrazia – la dismissione dei beni «inaccecabili».

Sul punto Berlusconi non ha mai preteso di imbrogliare nessuno. Il blind trust gli è stato proposto dai suoi «saggi» e lui, ovviamente, ha detto: a me sta bene. Poi gli è stato addirittura regalato gratis dalla sprovvedutezza dei suoi avversari. Come negarsi a un simile regalo? Intelligentemente Berlusconi non si è negato. Ma lui in prima persona non ha mai sostenuto che il cosiddetto affidamento «cieco» fosse davvero cieco. La sua linea di difesa è stata un’altra. È stata che sarebbe stato, oltreché ingiusto, illegale e incostituzionale costringerlo a vendere Mediaset e allegati.

Vediamo. Tutta una serie di esimi giuristi, nonché tutti i maggiori esponenti di Forza Italia e anche del Polo nel suo insieme, hanno sostenuto le tesi che seguono.

1. Una prima eccezione di incostituzionalità si rifà all’art. 51 della Costituzione che afferma sia l’eguale accesso di tutti i cittadini alle cariche pubbliche (elettorato passivo), sia il diritto di chi viene eletto a funzioni pubbliche di conservare il posto di lavoro. Quest’ultima eccezione è davvero risibile. Un Berlusconi che scambia Mediaset con un altro bene incassando in itinere, mettiamo, ventimila miliardi di lire, può essere assimilato a un disoccupato di Mediaset illegalmente privato del suo posto di lavoro? È difficile arrampicarsi sugli specchi più di così. Quanto alla prima eccezione di incostituzionalità, sul punto l’art. 51 dice così: «Tutti i cittadini [...] possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Dunque la Costituzione rinvia, per i «requisiti» dell’elettorato passivo, alla legge ordinaria (che sarebbe qui la legge sul conflitto di interessi)5. Il che rende eo ipso infondata questa eccezione di incostituzionalità.

2. Una seconda presunta violazione della Costituzione argomenta che toccare il patrimonio di Berlusconi è violare il principio della proprietà privata. Il debole di questo argomento è che nessuna costituzione democratica sancisce una inviolabilità assoluta della proprietà privata. La nostra Costituzione dichiara che «L’iniziativa economica [...] non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale» (art. 41), e che «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina [...] i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (art. 42). Dunque anche a questo effetto la Costituzione prevede «limiti» la cui determinazione è affidata alla legge ordinaria. E non c’è dubbio che il macroscopico conflitto di interessi del Cavaliere investa «funzioni sociali» (addirittura la formazione della pubblica opinione) e problemi di accessibilità (in chiave anti-trust). Pertanto Berlusconi non può essere difeso dal principio della proprietà privata. Anche questa eccezione di incostituzionalità è manifestamente pretestuosa.

3. Un terzo argomento è che obbligare Berlusconi a vendere Mediaset e dintorni equivale a un esproprio. Ma no. Intanto la vendita sul mercato che gli verrebbe imposta non è una imposizione «secca». A Berlusconi viene invece imposta una scelta: o Mediaset, o palazzo Chigi. E in ogni caso quel che la Costituzione vieta è l’esproprio senza indennizzo. Sul punto il già ricordato art. 42 precisa così: «La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale». Dunque, anche se esproprio fosse (e non lo è), la Costituzione lo consentirebbe. Questa difesa regge ancor meno delle altre.

4. Uscendo dalle argomentazioni pseudo-costituzionali una quarta linea di difesa è quella del «voto che assolve». Questa poi. Le elezioni eleggono e basta; e la scelta degli elettori è dettata da mille motivi diversi. Dovendoli riassumere in uno, possiamo solo asserire che una maggioranza ha preferito Berlusconi a Rutelli. Ed è sicurissimo che il motivo prevalente di quella preferenza non era la volontà di assolvere il Cavaliere dal peccato di trovarsi in conflitto di interessi. È sicurissimo perché sappiamo con certezza che circa un 80 per cento dell’elettorato nel suo complesso si interessa poco e capisce pochissimo di quel problema. E poi, se per caso viene eletto un assassino, la sua elezione non toglie che resti un assassino.

5. C’è poi, quinto, l’argomento che siccome Berlusconi è già ricchissimo, lui non ha bisogno di rubare come fanno invece i politici malestanti. Era l’argomento che fino alla Rivoluzione francese poteva giustificare il governo oligarchico dei nobili. Fa specie vederlo riesumato in democrazia. Comunque, è notoriamente un argomento falso. I poveri rubano per bisogno, e di solito si fermano lì. I ricchi che rubano (esistono anche loro) rubano per megalomania, per ossessione di grandezza. Il loro è un caso patologico che li rende – visto che la loro cupidigia è illimitata – molto più devastanti e nocivi, socialmente parlando, dei poveracci che cercano solo di sfamarsi. Il punto non è se Berlusconi rubi o no. È che l’argomento del ricco che non ruba appartiene al mondo delle fiabe. Per venderlo agli adulti ci voleva la televisione (dell’interessato).

6. Vengo infine all’unico argomento di tutta la serie che sta in piedi, anche se non ci dovrebbe commuovere più di tanto. Il discorso diventa, qui, che costringere Berlusconi ad alienare i suoi beni tangibili lo espone a un danno economico. Chi è obbligato a vendere, vende male. Talvolta è così; ma non è detto. Se Berlusconi avesse venduto quando io ho cominciato a sostenere che il suo conflitto di interessi poteva essere risolto soltanto dalla dismissione di Mediaset e collaterali, a quel momento avrebbe forse realizzato – se guardiamo alle quotazioni di mercato – quasi il doppio di oggi. Non mi spericolo sulle cifre. Ripeto solo che non è detto che le cessioni obbligate danneggino il venditore. Come è stato già mostrato, in Italia, dalla privatizzazione via OPV, delle partecipazioni statali.

Come osserva Passigli, il meccanismo

non è complesso: si fa valutare l’impresa da un consorzio di grandi banche italiane e internazionali e quindi lo si immette sul mercato avviando il meccanismo di offerta pubblica di vendita. Le decisioni sono così rimesse al mercato e non al proprietario, che altrimenti per non vendere potrebbe fare come Bertoldo alla ricerca del suo albero: rialzare il prezzo per non trovare compratori. Chi sostiene il mercato come principio guida dell’economia moderna deve accettarne le valutazioni anche quando riguardano le sue proprietà6.

L’argomento di Passigli mi sembra ineccepibile. Invece di divagare come hanno fatto finora, Frattini e il berlusconismo ci dicano perché non accettano «che quel che va bene per lo Stato non vada egualmente bene per chi in quel momento è chiamato a reggerlo»7.

Fin qui lo stato della questione. Che resta tale anche se le elezioni del 13 maggio 2001 hanno trasferito il potere a Berlusconi. Ma certo la vittoria elettorale di Berlusconi ne modifica la soluzione (o non-soluzione). Fino alle ultime elezioni il Cavaliere era stato sulla difensiva; ora, invece, può andare e va all’offensiva. Come ha lestamente fatto. Un primo progetto gli è stato proposto dal professor Antonio Baldassarre8. Ma Berlusconi ha preferito la trovata escogitata da Letta, Frattini e Urbani, tradotta dal governo nel disegno di legge Frattini. È superfluo dire che il progetto Frattini serve i comodi del Cavaliere meglio di ogni altro. Però prima di farne la critica è doveroso rendergli un riconoscimento. Frattini ammette senza più fingere, nella relazione introduttiva del suo schema di legge, che «anche il più rigoroso regime di segregazione e di commissariamento dell’impresa non potrebbe offuscarne la visibilità», dal che correttamente ricava che «occorre abbandonare qualunque impraticabile soluzione di accecamento»9, e cioè che la soluzione del blind trust non è applicabile perché non può funzionare. Alla buon’ora! I berlusconiani l’hanno sempre saputo (l’hanno proposta per questo); ma le sinistre non l’hanno capito fino al 2001 (ivi incluso tutto il periodo del rifacimento Dentamaro). Comunque, a questo punto chi si è lasciato frodare dal blind trust non dovrebbe fiatare più (anche se l’on. Violante continua assurdamente a riproporlo).

Riconosciuto il merito, tutto il resto è demerito. La relazione introduttiva di Frattini è un documento di una sordità impressionante. Sopra ho richiamato sei pesanti confutazioni, che non sono di mia invenzione ma che sono largamente condivise da una maggioranza di studiosi. Il che non significa che quelle confutazioni siano irrefutabili. Lo diventano, però, se ricevono soltanto la risposta del silenzio. E sta di fatto che Frattini «non riceve» e basta. La sua relazione introduttiva non tenta nemmeno di controbattere le critiche. Per lui è come se non esistessero. Frattini dichiara che l’accesso di un cittadino a una carica pubblica non può essere condizionato dal suo «censo» (sfondando, si è già notato, una porta aperta); che «ogni cittadino ha il diritto originario quale riflesso individuale della sovranità popolare di accedere alla carica pubblica mantenendo intatto il proprio stato patrimoniale» (nemmeno riesco a seguire); che il «costo di una alienazione coattiva appare iniquo e incompatibile con le garanzie costituzionali» (falso, si è visto); e che l’imposizione di una vendita costituirebbe ... il quasi totale annientamento del potere negoziale del venditore (il che non è vero, sappiamo, per l’offerta pubblica di vendita). È come lottare contro le onde del mare.

Veniamo al progetto. In passato Berlusconi era disposto a consentire una qualche sorvegliabilità del suo patrimonio. Oramai non più. Oramai è soltanto disposto a consentire un controllo sugli atti del governo. Così Frattini si limita a proporre una Autorità ad hoc incaricata di vigilare sulla eventualità di provvedimenti legislativi viziati da conflitto di interessi. L’uovo di Colombo? No; la beffa del secolo. Frattini predispone una rete che può soltanto acchiappare, volendo, i pesci piccoli, ma che si lascia sfuggire (anche se li volesse acchiappare) i pesci grandi.

La nuova cosiddetta «Autorità di garanzia» si configura come un cane da guardia senza denti, che può soltanto abbaiare. Infatti l’Autorità non ha nemmeno poteri sospensivi sui provvedimenti sospetti, e tantomeno può comminare sanzioni. Se un vizio viene accertato, o comunque sospettato, l’Autorità lo può soltanto «segnalare» ai presidenti delle Camere, che a loro volta trasmettono la segnalazione al Parlamento. Pertanto sarebbe un Parlamento dominato da una quadrata maggioranza berlusconiana a dover votare, se del caso, contro Berlusconi. Sognilandia? Ridilandia? Tutte e due. Si potrà osservare che tra cinque anni le maggioranze potrebbero cambiare. Ma a impero berlusconiano consolidato non sarà facile. E poi si è già visto nella scorsa legislatura quanto un ostruzionismo a oltranza può bloccare tutto.

Una considerazione di contorno è che l’Autorità frattiniana ha un raggio ispettivo troppo esteso e quindi troppo diluito. Essendo tenuta a indagare su tutti gli atti del governo – e altri ancora – l’ispezione diventa elefantiaca e irretita nella sua complessità e vastità. Come notavo, se la rete acchiapperà mai qualcosa (lo dovrà fare per giustificare il proprio diritto di esistere), acchiapperà soltanto pesci piccoli.

Passando alle obiezioni specifiche, la prima è che l’Autorità frattiniana deve aspettare, per aprire gli occhi, che avvenga una azione. E l’inazione? Nell’esercizio del potere i comportamenti omissivi – il non fare – sono spesso più determinanti e più frequenti del «fare». In secondo luogo, il potere «interessato» di Berlusconi è oramai largamente fondato su rendite di posizione, e preminentemente su Publitalia. Mettiamo che la Rai-Tv venga privatizzata. Berlusconi condizionerebbe e disseccherebbe le entrate dei suoi nuovi concorrenti privati senza nemmeno dover fiatare, visto che nessun erogatore di pubblicità sarebbe tanto imbecille da indispettire chi detiene le chiavi del potere (e quindi un potenziale elargitore di favori o punizioni) trasferendo ad altri i soldi che prima dava a Publitalia. Frattini (la sua legge) che fa? Ovviamente nulla: può soltanto lasciar fare.

Infine – è la mia terza obiezione – gli atti importanti di governo sono in genere atti legislativi, atti che assumono la forma di legge. E le leggi, si sa, sono per definizione regole generali. Non si applicano a una sola persona (i casi di «leggine fotografia» esistono, ma sono sempre camuffati); si applicano a intere categorie o classi di persone. Pertanto sarei molto obbligato a Frattini – o a chi per lui – se mi spiegasse come la sua Autorità potrà dimostrare a un Parlamento maldisposto (finché berlusconiano) che una legge generale asseconda soprattutto un interesse particolare. Gli intralci alle rogatorie internazionali? Per carità, sono giustificati dai principi generali del garantismo, non certo dall’interesse privato di Berlusconi e Previti. E così di volta in volta.

Proprio non ci siamo. E mi auguro che questa volta nessuno si lasci abbindolare dalla «apertura alla trattativa» suggerita da Frattini. Frattini potrà offrire – perché no? – che i componenti dell’Autorità non siano nominati dai presidenti di due Camere che sono entrambi espressione della stessa maggioranza berlusconiana. Potrà proporre un altro tipo di autorità.Ma questi sono contorni di un nocciolo indigesto. Temo proprio che la proposta Frattini non sia rimediabile nella sua essenza, e quindi che non sia negoziabile. Negoziarla sarebbe cadere nell’ennesima trappola.

Al momento nel quale scrivo non sappiamo ancora se Berlusconi preferirà forzare i tempi, o prendere tempo. Una terza ipotesi è che potrebbe anche essere costretto a lasciar perdere. Ma in quest’ultimo caso la partita dipende dal presidente della Repubblica, da Ciampi10.

La tesi di rito è che la firma del capo dello Stato apposta agli atti del governo costituisca un «atto dovuto». Talvolta è così; ma non sempre. Nell’art. 87 della Costituzione si legge che «il Presidente della Repubblica autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo».E non sta scritto da nessuna parte che questa firma sia dovuta. Mentre l’art. 74 della Costituzione prevede che «Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare una legge, può con un messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano successivamente la legge, questa deve essere promulgata». Qui l’obbligo della promulgazione è espressamente previsto.Il che non toglie che il potere del messaggio può essere, di per sé, un potere bloccante.

Dunque il capo dello Stato dispone, se vuole, di due strumenti di intervento nell’iter legislativo. Primo, e preliminarmente, non autorizzare la presentazione di una legge. Secondo, sospendere la promulgazione con invio di messaggio.

Il primo strumento è semplicissimo e anche, ufficialmente, indolore. Ciampi può far sapere a Berlusconi per via breve, anche soltanto a voce, che se il disegno di legge Frattini gli arrivasse per l’autorizzazione, lui la negherebbe. Berlusconi può cercare di aggirare l’ostacolo.Ma se il presidente s’impuntasse vincerebbe.

Il secondo strumento, la dilazione con ricorso al messaggio, consentirebbe invece a Berlusconi di far prevalere la sua volontà. Sennonché un messaggio del capo dello Stato che illustra per filo e per segno, urbi et orbi, come mai la soluzione Frattini «non risolve ma soltanto assolve», costituirebbe per Berlusconi un colpo devastante. Forse un colpo che non gli conviene di rischiare.

Il problema di Berlusconi è oramai di legittimità internazionale. L’opinione pubblica e dei media di tutto il mondo gli tiene gli occhi spalancatissimi addosso, e sempre più vede l’anomalia di Berlusconi come una anomalia altamente sospetta che viola regole fondamentali della democrazia. In questa cornice chi ha le carte in mano è Ciampi. Le vorrà giocare? La decisione è soltanto sua. Sino ad oggi il presidente ha cercato di coprire, coprendo Berlusconi, l’onore dell’Italia. Ma se il Quirinale dispone di un servizio stampa (internazionale) che funziona, allora deve sapere che giocare la partita di coprire l’onore del paese avallando Berlusconi è una partita perdente e anzi già perduta. Non è che il presidente possa rivendere all’estero – promulgando la Frattini – l’immagine di un Cavaliere senza più macchie, redento e ripulito a nuovo. Può soltanto, nel tentativo, trascinare anche se stesso nel baratro di una Repubblica pericolante. Dio non voglia.

Così dicendo non rivolgo un appello a Ciampi. Ho già commesso questo inutile errore11 e non lo ripeto. La mia, qui, è soltanto una diagnosi corredata da prognosi. In materia il presidente è davvero «sovrano». Il che però lo rende, per ciò stesso, altamente responsabile. Non è vero che, se anche volesse, nulla potrebbe fare. No; Ciampi, se vuole, può. L’Italia è oramai una democrazia in bilico, insidiata (strutturalmente, e quindi costitutivamente) dall’eccesso e dall’abuso di potere. Perché il regime berlusconiano sta violando di fatto, e addirittura violerà al coperto del diritto (con la legge Frattini), tutti i principi fondamentali dello Stato di diritto: a) che il controllato non può essere il controllore; b) che gli interessi privati non possono essere tutelati da atti di ufficio; c) che i media che formano l’opinione pubblica debbono essere adeguatamente pluralistici; d) che il mercato non deve essere dominato dalla collusione tra politica e affari; e) che ogni potere deve essere limitato da altri poteri, da contropoteri. La violazione di tutti questi principi non costituisce motivo «grave», sufficientemente grave, per far scattare il diritto-dovere di un capo dello Stato di intervenire e di dissociarsi? Se il presidente Ciampi deciderà di no – se sceglierà la via facile del lasciar passare e dell’avallare – deve essere chiaro che anche questa è una decisione: è un decidere di non fare del quale porterebbe l’intera responsabilità.


Note

1 Questa interpretazione della Giunta per le elezioni della Camera, manifestamente cavillosa, beffava la legge sulla incompatibilità-ineleggibilità del 1957, e più precisamente il DPR 30 maggio 1957, n. 361; un decreto che rinviava a sua volta al Testo Unico del 5 febbraio 1948, n. 26, art. 8. Anche il nostro codice civile disciplina il conflitto di interessi (segnatamente all’art. 2373). Ma una normativa privatistica si trasferisce poco e male nell’ambito del diritto pubblico.

2 S. Passigli, Democrazia e conflitto di interessi: il caso italiano, Ponte alle Grazie, Milano 2001, p. 103.

3 Ivi, p. 104.

4 Per le mie riserve sul progetto Dentamaro vedi Un passo avanti, un passo corto, in «Corriere della Sera», 2 marzo 2001; e anche Il Cavaliere ama due donne e le vuole sposare tutte e due, in «L’Espresso», 22 febbraio 2001, pp. 64-65.

5 Tipicamente, tutti i berlusconiani che citano questo disposto dell’art. 51 omettono di citare che l’eguaglianza di accesso alle cariche è qualificata da un rinvio alla legge.

6 Passigli, Democrazia e conflitto di interessi cit., p. 134.

7 Ibid.

8 Progetto incluso nelle mie critiche in Cavaliere provi con Marina, in «L’Espresso», 12 luglio 2001, pp. 64-65, dove scrivo che «siamo così costretti a concludere che dal combinato disposto Baldassarre-Frattini-Ferrara non emerge alcun rimedio che tenga». Contro il progetto Baldassarre vedi anche Signor Presidente, sul conflitto di interessi non è possibile tacere – Lettera Aperta, in «Micromega», 3 giugno 2001, pp. 7-12.

9 Cito dal testo Schema di disegno di legge recante norme in materia di risoluzione dei conflitti di interessi. Si tratta di un primo testo che verrà probabilmente ritoccato (anche, vorrei sperare, nell’italiano).

10 Questo è un punto che ritengo molto importante e sul quale mi sono soffermato di recente più volte. Vedi, Il presidente super partes, in «Corriere della Sera», 2 novembre 2001; Sartori sul Cavaliere: non tratta e attacca il poco coraggio di Ciampi (lettera a Giuliano Ferrara), in «Il Foglio», 10 novembre 2001; Conflitto di interessi: Ciampi deve agire (intervista), in «l’Unità», 18 novembre 2001, pp. 1 e 12; Il conflitto non risolto, in «Corriere della Sera», 10 dicembre 2001.

11 Vedi Signor Presidente cit.


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