IL PM NORDIO: COOP ROSSE E SCANDALOSO LINCIAGGIO MEDIATICO

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INES TABUSSO
00mercoledì 11 gennaio 2006 19:56

Il Gazzettino Online: il quotidiano del NordEst
11 Gennaio 2006

L'INTERVISTA
Il Pm Carlo Nordio: «Scandaloso linciaggio mediatico»


«Faccio presente che verso il 1991 il partito versava in precarie condizioni economiche dovute a una paurosa crisi finanziaria della Lega connessa alle perdite subite da Unipol Finanziaria, poi Finsoe, e da Banec, nonchè dalle difficoltà di Fincooper...». Così parlava dieci anni fa Giuliano Peruzzi, consulente delle "coop rosse", uno dei testi d'accusa dell'inchiesta veneziana che vide indagati i segretari nazionali Achille Occhetto e Massimo D'Alema. Miracolosamente risorte, nel 2005 quelle stesse società hanno tentato la scalata a Bnl e da quell'impresa ideata da Giovanni Consorte (indagato a Milano per associazione per delinquere) è nato il putiferio giudiziario-politico che sta coinvolgendo i vertici dei Ds.

Carlo Nordio è il Pm che ha indagato più a fondo sulla galassia rossa di Tangentopoli e la citazione del verbale è tratta dal documento in cui chiese il proscioglimento di Occhetto e D'Alema. Adesso dice: «Ciò che si scopre non mi stupisce, mi stupisce il "come"». Da magistrato garantista rifiuta i processi sommari e la diffusione di intercettazioni telefoniche. Eppure in questa intervista rilegge ciò che scoprì negli anni Novanta e lo raffronta con il nuovo volto della finanza rossa.


Dottor Nordio, è stupito dal terremoto Unipol-Contrada-Fassino?

«Non da "cosa" emerge, ma da "come" viene fuori».

In che senso?

«Perche la funzione delle cooperative rosse e delle società finanziarie, come controllanti o controllate delle stesse, quale braccio economico del Pci-Pds negli anni Novanta era emerso in modo chiarissimo nelle nostre inchieste».

Per gli inquirenti, ma a lungo negato dal sistema politico.

«Infatti fu negato - in modo furibondo dagli indagati e in modo un po' ironico dall'onorevole Massimo D'Alema - qualsiasi rapporto economico tra cooperative, società, assicurazioni e partito. Su questo punto ci fu un vero fuoco di sbarramento».

Legge lo stesso atteggiamento anche nelle reazioni di questi giorni?

«Oggi si tende a difendere la relazione tra Unipol e partito dicendo che si è molto allentata, come quella tra Coop e Ds, rispetto al passato. Sono d'accordo che il legame sia meno intenso di dieci anni fa, però allora fu negato. Ma se oggi si dice che è meno forte di una volta, si ammette che allora lo era. Mentre nel corso delle nostre inchieste lo si negava».

Ci sono delle differenze tra il passato e il presente?

«Allora il rapporto tra "coop rosse" e partito era organico, con finanziamenti indiretti, ma occulti, dalle prime al secondo. È per questo che non sono sorpreso degli intrecci che stanno emergendo. Però ha ragione il segretario Piero Fassino quando dice che sono di minore entità rispetto al passato».

Ma se quel legame apparve talmente stretto, perchè non arrivò a chiedere il rinvio a giudizio nel 1998 dei segretari Occhetto e D'Alema per finanziamento illecito dei partiti?

«Furono raggiunte prove evidentissime del fatto che le "coop rosse" finanziassero il partito, ma per il Codice la responsabilità penale è personale. E io non ho mai accettato il principio secondo cui chi sta al vertice "non può non sapere". Infatti, una cosa sono i finanziamenti al partito, altra cosa è la responsabilità penale individuale rispetto al finanziamento clandestino e continuativo delle "coop" come l'inchiesta ha dimostrato».

Lei partì dal dissesto di alcune cooperative agricole e arrivò ad occuparsi dei flussi complessivi del Pci-Pds, nei loro risvolti finanziari e immobiliari. A quanto ammontavano?

«Calcolammo l'esistenza di un patrimonio immobiliare dell'ordine di mille miliardi di lire. Ma il Pci non ha mai spiegato come avesse potuto accumulare una fortuna del genere, che conduceva a decine di società immobiliari e ad intestazioni fittizie. La scoperta fu fatta dalla Procura di Milano, ma per un errore tutta la documentazione non fu sequestrata. E il giorno dopo si scoprì che era stata fatta sparire. Per quell'episodio venne anche aperta un'inchiesta».

Un rapporto quantitativo con le scoperte odierne?

«Allora era già emerso molto di più. C'era un intreccio tra le società Finsoe e Finsoge che venne raccontato da Giuliano Peruzzi, il braccio destro di Primo Greganti, che raccontò come funzionava piramidalmente l'economia del partito, un'economia che non figurava nel bilancio».

Perchè l'ha invece stupita il "come", ovvero il modo delle scoperte di queste settimane?

«Ancora una volta - e lo dico con amarezza - da quanto sta emergendo di questa vicenda giudiziaria vi è una oggettiva interferenza tra l'amministrazione della giustizia e la politica, dalla quale - presumibilmente e stando a quello che dicono gli stessi interessati - un partito potrà trarre un danno».

Le elezioni sono infatti alle porte e molto spesso, in questo Paese, i politici hanno accusato la magistratura di condizionare i risultati elettorali.

«Ma io non penso all'operato della magistratura, che fa solo il proprio lavoro. Come cittadino, invece, non mi piacciono due cose. Innanzitutto che una forza politica tragga un vantaggio o un danno da una vicenda giudiziaria che deve rimanere comunque ancorata in questa fase alla presunzione d'innocenza».

La seconda?

«Che questa negatività, queste insinuazioni nei confronti di un partito - comunque costituito da persone oneste, singolarmente prese - emergano da intercettazioni telefoniche diffuse in modo illegale».

Lei ha sempre criticato la fuga di notizie e dei testi delle intercettazioni.

«E ribadisco che dovevano restare coperte dal segreto, Condivido in pieno quello che ha detto qualche uomo politico, ovvero che la diffusione costituisca una barbarie, un modo per far linciare un partito sui giornali a causa di telefonate delle quali nessuno conosce il testo e l'autenticità».

Di chi è la colpa?

«Sono indignato allo stesso modo di Fassino. Io penso che queste cose non accadrebbero se la magistratura vigilasse di più sulle intercettazioni, che sono peraltro protette dall'articolo 15 della Costituzione riguardante l'inviolabilità della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione».

È innegabile che vi sia una speculazione politica, e quindi una sorta di persecuzione extra-giudiziaria, come effeto politico di una inchiesta giudiziaria.

«Io vorrei che le stesse parole che sono state pronunciate in questa occasione nei confronti delle intercettazioni delle telefonate dell'onorevole Fassino fossero state dette anche nelle precedenti occasioni in cui invece la diffusione di intercettazioni poteva far comodo ad altre forze politiche».

Dall'inchiesta veneziana degli anni '90 emergevano i ruoli di alcune società che troviamo anche oggi. Ad esempio Finsoe, che controlla il 52 per cento di Unipol.

«Finsoe era una società finanziaria legata da una parte alle "coop" e dall'altra al partito, la cui funzione venne descritta benissimo dal braccio destro di Greganti in un interrogatorio davanti al procuratore di Napoli, Agostino Cordova, e poi anche davanti a me».

Ma come provaste la coincidenza tra "coop" e partito?

«Abbiamo fatto unoscreening delle cariche di "coop" e partito verificando come i vertiti delle "coop" fossero interscambiabili con i vertici del Pci-Pds. Poi scoprimmo che le assunzioni fittizie fatte dalle "coop" servivano a favorire il trattamento economico-previdenziale dei dipendenti del partito. Fatti confermati ampiamente ai Pm di Milano, Napoli e Venezia da chi vi aveva lavorato».

Lei si impegnò molto per dimostrare la contiguità che tutti negavano, soprattutto con un occhio alle coop agricole.

«A un certo punto spuntò fuori una lettera dell'allora segretario di Belluno, Sergio Reolon, che si era lamentato con il segretario Occhetto perchè lui aveva cercato di far fuori Alberto Fontana...».

Ovvero il principale imputato dello scandalo delle bancarotte agricole.

«Esatto. E in quella lettera Reolon(oggi è presidente dell'Amministrazione Provinciale di Belluno e milita nella Margherita, ndr) diceva che invece il partito aveva fatto fuori lui».

Quali sono i canali di finanziamento del Pci emersi dalle sue inchieste?

«Il primo e a mio giudizio più grave, anche se non costituiva reato, era quello che veniva da un Paese che teneva i suoi missili puntati su di noi. Solo quel fatto dovrebbe evitare ogni riferimento a questioni morali. Non capisco come il segretario Enrico Berlinguer potesse rifarsi a questioni morali mentre riceveva soldi da un Paese ostile. Non mi riferisco al suo contegno personale, che era impeccabile, ma alla questione politica».

È vero che esisteva una morale individuale distinta da quella di partito?

«Nessuno si è tenuto una lira per sè, almeno così è emerso dalle inchieste. Ma io penso che sia più grave il comportamento di chi si appropria di qualcosa per il partito, che non per ragioni personali. Infatti, deruba due volte il cittadino: come contribuente e come politico, perchè porta al partito denaro che non è quello del derubato».

Quali altre forme di approvvigionamento oltre ai soldi dell'Urss?

«Le tradizionali provvigioni sul commercio con i paesi dell'Est. Le inserzioni pubblicitarie fittizie per mascherare pagamenti da aziende. Provviste sotto forma di appalti alle "coop" in un mercato che il Pci si spartiva con Dc e Psi».

Tangenti vere e proprie?

«Probabilmente ci fu qualche episodio del genere. Ma ad esempio lo stesso Greganti disse che il denaro gli era servito per comperarsi uan casa. In qualche caso si è scoperto che gli immobili, pur intestati a persone fisiche, erano del partito che li usò per ripianare tutti i suoi debiti».

Il partito si è difeso sostenendo che gli introiti erano leciti.

«Come hanno potuto accumulare un patrimonio di mille miliardi che girava attorno ad alcune società come Unipol, Finsoe, Finsoge? Quello che si è scoperto allora è tutto scritto, pubblico. Ma a rileggerlo oggi, si capiscono meglio tante cose».

Giuseppe Pietrobelli
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