il pittore pazzo

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della red
00lunedì 13 giugno 2005 15:14
A quarant'anni dalla morte una grande antologica tra Palazzo Magnani a Reggio Emilia e Palazzo Bentivoglio a Gualtieri


Reggio Emilia - "A me faranno un film quando sarò morto, a me faranno una grande mostra a Parigi, a me faranno un monumento, perché me sono un grande artista, avete capito?" Così diceva Antonio Ligabue a chi lo scherniva. Parole d’istinto rabbioso e febbricitante autoconsapevolezza che prefiguravano il tipico destino dell’artista "diverso", dileggiato in vita e celebrato dopo la morte. Quello che sarà il destino di Ligabue. Lo strano, l’incompreso e l’inaccettato, il "pittore pazzo", che entrava e usciva dal manicomio, che preferiva gli animali della stalla alla compagnia di un uomo, che amava la solitudine di un bosco piuttosto che le baldorie da locanda. "Se questo è un uomo", avrebbe detto Primo Levi, con "un’infanzia distrutta, una giovinezza allucinante, una maturità ossessiva ed impossibile", un uomo che ha imparato "a fare a meno della felicità - dice Giuseppe Amadei - rinunciando, forse, anche a pensarla e a figurarsela". Eppure, un grande artista, quel talento che sboccia dalle ferite esistenziali più profonde. Un uomo che non poteva e non sapeva fare altro che dipingere. Come Francis Bacon che diceva "lavoro per me stesso, cos'altro ho per cui lavorare?". E a quarant’anni dalla morte avvenuta il 27 maggio 1965, all’età di 66 anni, la più ampia e ricca antologica mai realizzata prima lo celebra dal 28 maggio al 18 settembre, nella doppia sede di Palazzo Magnani a Reggio Emilia e di Palazzo Bentivoglio a Gualtieri, con cento dipinti, tra cui alcuni di grandi dimensioni, cinquanta tra disegni e incisioni originali nella tiratura firmata dall'artista e cinquanta terrecotte.

Una rassegna, curata da Sergio Negri e Sandro Parmiggiani, che vorrebbe ricostruire in modo dettagliato e scientifico l’intero percorso creativo dell’artista segnato dalla triste odissea esistenziale, con l’obiettivo, però, di riscriverne la natura, gli intenti e gli esiti, troppo a lungo pietrificati e mortificati - a detta dei curatori - sotto la definizione manualistica di "naïf" per, invece, evidenziarne la partecipazione significativa a quel filone "primitivo" ed espressionista che esplodeva a livello internazionale. Sdoganare, insomma, Ligabue, oltre il confine della Bassa reggiana, dove, dall’età di vent’anni ha trascinato la sua esistenza. Il dilemma di fondo, intorno a cui ruota la grande mostra è: naïf o non naïf? Ingenuo o non ingenuo? Risposta che può arrivare direttamente dalle parole di Ligabue: "Io gli animali so come sono fatti anche dentro". Perché è da una conoscenza intima, profonda, empatica che nascevano i suoi disegni e i suoi quadri. Non c’era estemporaneità nel suo tratto, ma un incontro ravvicinato.

"Non era uno sprovveduto né un incolto né un ingenuo come tanti potevano o possono ancora pensare - avverte Sergio Negri - ma un pittore vero che, pur muovendosi al di fuori delle norme e degli schemi consueti all'artista contemporaneo, era conscio di ciò che faceva o voleva". D'altronde lo stesso Anatole Jakovsky, padre spirituale della naïveté europea, non se la sentì di includerlo nel firmamento naïf, visto che ebbe a dichiarare "egli resterà uno dei grandi enigmi del nostro tempo!". "La sua arte è senz' altro un continuo procedere nel solco della costante ricerca - insiste Negri - E, se agli esordi la sua produzione può favorire un accostamento alla naïveté, sicuramente nei periodi successivi il pittore si esprime in modo del tutto differente e con una grande e indiscussa genialità creativa, sempre dominata e guidata dal sentimento". Non a caso, anche Marino Mazzacurati, che incontrò Ligabue a Gualtieri e con cui strinse un sodalizio di stima e amicizia, lo definisce "non pittore naïf , ma grande artista espressionista".

Come tutti gli artisti borderline, non si può fare a meno di ricucire uno spaccato biografico di Ligabue, quanto mai tragico e spietato, nato in Svizzera, da cui sarà espulso per cattiva condotta e carattere turbolento, da tale Elisabetta Costa madre naturale operaia italiana immigrata e padre ignoto, e ceduto all'età di nove mesi ad una matrigna svizzera-tedesca, le cui ristrettezze economiche ebbero conseguenze sul neonato che fu colpito da rachitismo e mancanza vitaminica che gli causarono una malformazione cranica e un blocco dello sviluppo fisico, procurandogli quel­l’aspetto sgraziato che avrà poi da adulto. Dopo un'infanzia difficile e tormentata, sballottolato da un istituto rieducativo all’altro, nell'agosto 1919 a Gualtieri, paese d'origine dell'uomo, Bonfiglio Laccabue, che la madre, Elisabetta Costa, aveva sposato nel 1901. La sua arte nasce in questo nuovo ambiente italiano di provincia, cosparso di tristezza e dolore e si sviluppa tra ostilità e incomprensioni, tra internamenti all'Istituto Psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia e al Ricovero di mendicità di Gualtieri, segnati dal carattere irascibile e violento e dai suoi atti di autolesionismo.

Un’arte, segnata, però, da un interesse particolare per i musei di scienze naturali e per gli animali, per la natura nella sua indomita e istintiva purezza. Una creatività che sfila in questa doppia esposizione. Se a Palazzo Bentivoglio di Gualtieri vanno in scena i disegni, le incisioni e quasi tutte le terrecotte modellate dall'artista con la creta del Po, accanto a una dozzina di opere ad olio date in affido da collezionisti della zona, a Palazzo Magnani spiccano i dipinti ad olio, rigorosamente selezionati dai curatori secondo caratteristiche cronologiche che rintracciano le fatidiche tre fasi stilistiche di Ligabue. La prima, "delle incertezze, delle primissime ingenue esercitazioni", copre gli anni dal 1928 al ’39, è fatta di una manipolazione "garbata" di colori - i verdi, lo smeraldo, i bruni, con cui ottiene le tonalità grigiastre, il giallo di cromo e il blu cobalto, pochi i rossi e parsimonioso uso delle terre naturali - dedicati a ritrarre gli animali e il mondo campestre.

Ma nella generale accensione dei valori cromatici, determinatasi proprio sul finire del primo periodo - sottolinea Negri - si avverte un certo collegamento con gli schemi cromatici della scuola romana di Scipione e Mafai. La seconda fase, della complessa elaborazione delle forme e dalla coloristica altamente raffinata, va dal ’39 al ’52, e il vero protagonista appare senz'altro il colore: il "signor colore", caldo e vivido che esterna in modo totale e radicale il dramma della propria esistenza attraverso la configurazione dell'aggressività animalesca. Il terzo periodo, il più copioso, è decisamente quello più espressionista, perché come osserva Giuseppe Amadei "la sua pittura, sia idillica o violenta, ritragga un animale feroce una fanciulla, rappresenti una crocifissione o un vaso di fiori, costituisce sempre una insuperabile spia del suo animo". Una fase che salta al 20 novembre del 1962, quando nel corso della notte viene colpito da paralisi in tutta la parte destra del corpo. Morirà all'imbrunire del 27 maggio 1965 presso il ricovero di mendicità Carri di Gualtieri. Dove stavolta avrà trovato la pace.

(Laura Larcan)

Notizie utili - "Antonio Ligabue", dal 28 maggio - 18 settembre 2005, Reggio Emilia, Palazzo Magnani (corso Garibaldi 29), Gualtieri, Palazzo Bentivoglio. La mostra è curata da Sergio Negri e Sandro Parmiggiani
Orari Palazzo Magnani: 10.00 - 13.00, 15.00 - 19.00; chiuso il lunedì; dal 16 giugno al 18 settembre: giovedì, venerdì, sabato e domenica, anche dalle 21 alle 23, aperta anche il 15 agosto.
Orari Palazzo Bentivoglio: lunedì-venerdì, solo su prenotazione; sabato, domenica e festivi 10.00 - 13.00, 15.00 - 19.00.
Ingresso: per entrambe le sedi: €7 intero; €5 ridotto; €2 studenti.
Informazioni: tel. 0522-454437; fax 0522-444436, e-mail: info@palazzomagnani.it;
web: www.palazzomagnani.it
Catalogo: Edizioni Skira


neve67
00sabato 17 settembre 2005 16:43
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