00 07/01/2006 23:17
CORRIERE DELLA SERA
7 gennaio 2006
Pacs gay, celebra il magistrato di Cassazione
Manifestazione a Roma il 14 gennaio. «Un atto simbolico, serve una legge»

ROMA - «Un atto simbolico, una provocazione». Giovanni Palombarini, magistrato di Cassazione, ex membro del Csm, darà la benedizione (civile, si capisce, non religiosa) ad alcune coppie di fatto. Una specie di rito che verrà celebrato a Roma sabato 14 in Piazza Farnese, sotto la guida di Alessandro Cecchi Paone, che non nasconde le sue inclinazioni omosessuali. Si faranno avanti almeno 5 coppie di politici e personaggi in qualche modo noti, che renderanno ufficiale la loro convivenza. Lesbiche, gay, ma anche eterosessuali. «Il mio ruolo - spiega Palombarini - dovrebbe conferire una certa solennità a un gesto chiaramente formale. Farò un discorsino sui Pacs, sul loro significato, su cosa comportano dal punto di vista civile. E chiederò a ciascuno se accetta di formare una coppia di fatto». Prima di diffondere i nomi dei partecipanti si aspetta l’okay definitivo di tutte le persone coinvolte. Di sicuro Paola Concia, responsabile sport per i Ds, si presenterà con la sua compagna. Dovrebbe arrivare con la convivente anche la deputata di Rifondazione comunista Titti De Simone.
Secondo Palombarini, un’operazione di piazza come questa può richiamare l’attenzione sulla necessità di approvare la proposta di legge sui Pacs, che rispetto alle norme di altri Paesi europei «è più limitata, prudente, e quindi più accettabile. Non riconosce, come avviene a livello europeo, la piena equiparazione dei Pacs al matrimonio. Ammette lo scioglimento del patto di solidarietà se uno dei partner decide di rompere il rapporto. Non tocca la situazione dei figli eventualmente nati da un precedente legame».
La legge, quindi, si limiterebbe a disciplinare alcuni aspetti pratici della vita di coppia, come l’assistenza sanitaria, la divisione patrimoniale, la destinazione dell’eredità. «È ormai indispensabile - dice Palombarini - mettere ordine in questo campo. Perciò mi presto volentieri a compiere un gesto provocatorio».
Ma Gianni Alemanno (An), ministro delle Politiche agricole, non apprezza affatto. Un magistrato di Cassazione, secondo lui, non dovrebbe intervenire «a una manifestazione trasgressiva, sia pure simbolicamente, delle norme vigenti in tema di famiglia». Casomai i giudici dovrebbero difendere «l’istituto del matrimonio, riconosciuto dalla Costituzione». Al contrario di ciò che vorrebbe il ministro, proprio due giorni fa la Cassazione ha riconosciuto dignità non solo alle famiglie unite da un matrimonio, ma anche alle coppie di fatto, giustificandole come «una significativa evoluzione sociale». Una decisione contro la quale è insorto il quotidiano cattolico Avvenire [1], irritato perché le toghe di ermellino si prendono «la libertà di allargare o restringere le maglie delle norme vigenti».
Marco Nese


La carriera e l’evento

IL MAGISTRATO
Giovanni Palombarini (nella foto) è avvocato generale, rappresenta cioè il pubblico ministero presso la Corte di Cassazione. Nel corso del 2006 compirà 70 anni. La sua residenza è a Padova, dove ha iniziato la carriera come giudice istruttore. Il suo nome è legato all’inchiesta giudiziaria sul «caso 7 aprile», in cui fu coinvolto il professor Toni Negri. Ex presidente della corrente di sinistra Magistratura democratica, Palombarini è stato membro del Consiglio superiore della magistratura

L’INIZIATIVA
Il 14 gennaio a Roma, in piazza Farnese, i gruppi favorevoli ai Pacs terranno una manifestazione in cui alcune coppie di fatto renderanno nota la loro convivenza. L’evento si svolgerà contemporaneamente ad una manifestazione per la difesa della legge sull’aborto in programma a Milano, «Due piazze per la libertà»




«Sbagliato fare politica, devono parlare solo le sentenze»
ROMA - «Non condivido l’iniziativa di Palombarini. Un magistrato dovrebbe limitarsi a parlare attraverso le sentenze», dice Ferdinando Imposimato, che da giudice istruttore ha seguito inchieste importanti come quelle sulle Brigate rosse, il caso Moro, l’attentato al Papa. A suo avviso, un magistrato «non dovrebbe svolgere attività socio-politica, facendosi coinvolgere in manifestazioni come quella in programma il 14 gennaio. Mi sembra un’iniziativa inopportuna, non coerente con le funzioni istituzionali di un magistrato della Corte di Cassazione».
Imposimato ritiene invece corretto che la Cassazione abbia emesso una sentenza in cui definisce le coppie di fatto come «una significativa evoluzione sociale». In questo modo i magistrati «hanno anche ricordato al legislatore, cioè al Parlamento, che le leggi vanno adeguate ai tempi».
E qui Imposimato sostiene che il Parlamento ha «l’obbligo di intervenire» quando una legge non è più applicata perché i cittadini la ignorano e «si comportano in modo del tutto diverso rispetto alle norme in vigore, perché la sensibilità generale, il costume, non sono più quelli dei tempi in cui la legge venne approvata».
In altre parole, se le coppie di fatto esistono e molti cittadini non le considerano uno scandalo, «la legge deve adeguarsi, e bene fanno i giudici della Cassazione a interpretare l’evoluzione sociale, segnalando l’esigenza di venire incontro alle nuove situazioni».
Così facendo, secondo Imposimato, i giudici si attengono scrupolosamente alla Costituzione. «Se noi teniamo conto di ciò che si legge nell’articolo 2 della Costituzione, comprendiamo perché i magistrati prendono a cuore anche la situazione di chi per le norme in vigore conduce una vita irregolare».
La parte dell’articolo 2 che, dice Imposimato, giustifica la sentenza della Cassazione sulle coppie di fatto è quella in cui si parla di tutti i cittadini uguali, senza tener conto delle «condizioni personali e sociali». Quindi, anche i gay, le coppie di fatto, i «diversi» in generale.
M. Ne.




[1]
AVVENIRE
6 gennaio 2006
COPPIE DI FATTO, PAROLE IN LIBERTÀ
LA SCHIUMA ENTRA IN CASSAZIONE
Gianfranco Marcelli

C'è un evidente paradosso nella sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha sentito il bisogno di definire, quasi en passant, la famiglia di fatto come frutto di «una significativa evoluzione sociale», tale da meritare un trattamento analogo a quello della famiglia legale. Il paradosso nasce dal merito del "caso" che i giudici della suprema istanza giudiziale stavano esaminando: quello di un detenuto che chiedeva di poter accedere al gratuito patrocinio per motivi di reddito, ma che si è visto negare questo diritto perché convivente con una donna le cui entrate, cumulate alle sue, gli facevano oltrepassare la soglia di reddito oltre la quale l'avvocato difensore bisogna pagarselo.
Nel pieno di un'offensiva ideologica che non risparmia argomentazioni le più stravaganti, per sostenere la tesi di una "par condicio" costituzionalmente improponibile, ci pare già di sentire i fautori della equiparazione: «Visto? Non è vero che con i pacs o assimilati si esigono soltanto diritti e non si accettano i doveri connessi. Quando occorre, siamo pronti anche a pagare...». In realtà, da questo punto di vista l'innovazione è relativa, perché già oggi, sulla base della legislazione vigente in materia di anagrafe, la convivenza tra persone legate da vincoli affettivi dichiarati implica la sommatoria dei singoli redditi, al fine di conseguire certi sgravi o benefici previsti dalla legislazione sul welfare.
Ma aldilà dei paradossi, l'aspetto che qui ci preme segnalare, con tutto il disagio che provoca, è l'ennesimo strappo culturale proveniente da un'istanza deputata, per definizione, a giudicare se i processi di primo e secondo grado siano stati condotti secondo i codici (il cosiddetto giudizio di legittimità). Non quindi ad entrare nel concreto delle vicende che stanno all'origine del procedimento. Tanto meno a valutarne la latitudine in termini di accettabilità sociale.
Intendiamoci, non è la prima volta che le "toghe di ermellino" si prendono la libertà di allargare o restringere le maglie delle norme vigenti (basti ricordare la sentenza del 2004, che mise in discussione l'esonero dal pagamento dell'Ici per alcune tipologie di edifici destinati a finalità di assistenza, istruzione e simili). Ed è vero: quando non decide "a sezioni unite", la Cassazione ha già mostrato in più occasioni di saper cambiare idea, talora invertendo anche di 180 gradi certe sue precedenti rotte interpretative. Qualcuno ricorda i recenti opposti pronunciamenti in materia di violenza sessuale, con tutto il corredo di valutazioni sull'uso dei jeans da parte delle vittime?
Resta tuttavia lo sconcerto per un approccio dal chiaro sapore di forzatura. Basti scorrere le righe della sentenza in cui si parla apertamente di «famiglia di fatto», giudicandola «realtà sociale» che resta sì estranea allo «schema legale», ma che nonostante ciò «esprime comunque caratteri ed istanze analoghe a quelle della famiglia "stricto sensu" intesa». Non si riesce davvero a capire in base a quale logica un organismo, cui spetta delibare sempre e comunque entro "schemi legali", possa ricorrere invece a categorie di natura extragiuridica, per impancarsi a giudice di presunte evoluzioni, frutto di "schiume" o derive sociologiche.
La moda dello sconfinamento in punto di diritto, insomma, miete sempre nuove vittime. Finora, erano soprattutto i tribunali amministrativi regionali (i tar) a gareggiare in fantasia "creativa". In questo caso siamo di fronte a magistrati dell'area penale che invadono il territorio del diritto di famiglia. Attendiamo con curiosità, ma anche con una qualche apprensione, di registrare i futuri sviluppi.

INES TABUSSO