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CORRIERE DELLA SERA
4 giugno 2006
Amnistia? Solo a chi risarcisce le vittime
di VITTORIO GREVI

E’sempre difficile provare entusiasmo per la prospettiva di un provvedimento di amnistia, che per il suo tipico effetto di estinguere i reati (e, quindi, di cancellare i correlativi processi in corso), oltre che le eventuali pene già applicate, si configura di per sé come uno strappo rispetto al principio di legalità, su cui si fondano i moderni Stati di diritto. Uno strappo in quanto attraverso l’amnistia e, in minore misura, attraverso l’indulto (come pure attraverso i diversi condoni fiscali o di altra natura cui da troppo tempo siamo abituati), lo Stato rinuncia, di fatto, alla piena applicazione delle proprie leggi penali, esercitando un potere di «perdono» che, in realtà, si riallaccia alle tradizioni della «clemenza sovrana» propria delle antiche monarchie. Tutto ciò spiega perché in uno stato di diritto i provvedimenti di amnistia debbano avere carattere eccezionale (com’è confermato dalla «maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera», richiesta dalla nostra Costituzione, a partire dal 1992, per il varo della corrispondente legge), potendo per lo più giustificarsi soltanto in presenza di situazioni legate a riforme strutturali, e tali da non poter essere ragionevolmente fronteggiate in altro modo nel breve periodo. Così era stato sedici anni fa, in occasione dell’ultimo provvedimento di amnistia, volto a superare i problemi conseguenti all’avvento del nuovo codice di procedura penale. Così dovrebbe essere anche oggi, con riferimento alle future riforme (non a caso nel programma dell’Unione l’ipotesi di un atto di clemenza era associata all’approvazione di un nuovo codice penale). Senonché già nel dibattito riaccesosi negli ultimi mesi della trascorsa legislatura, ancora sulla scia dell’appello formulato da Papa Giovanni Paolo II nel novembre 2002, il principale argomento addotto è stato quello nascente dall’intollerabile livello di sovraffollamento dei nostri istituti carcerari: dove, alla luce degli ultimi dati, sono attualmente ospitati più di 61.000 detenuti, cioè oltre 15.000 in più rispetto alla capienza ordinaria.
Per la verità l’obiettivo di una sostanziosa deflazione della popolazione carceraria potrebbe essere perseguito anche soltanto facendo leva su un adeguato provvedimento di indulto (per sua natura diretto a condonare in tutto o in parte le pene, senza alcuna incidenza sui processi pendenti). Tale, del resto, era parsa la strada privilegiata dal presidente del Consiglio Prodi nel suo discorso sul programma governativo di metà maggio, mediante un esplicito richiamo all’esigenza di «alleggerire l’attuale insostenibile situazione delle carceri». D’altro canto, i vantaggi ulteriori derivanti dal varo di una contestuale amnistia (così come prospettata dal ministro Mastella, con la dichiarata copertura di Palazzo Chigi), potrebbero essere soprattutto quelli di alleggerire, nel contempo, anche gli armadi degli uffici giudiziari: quanto meno per liberarli dal sovraccarico dei fascicoli relativi a processi destinati in larga misura alla prescrizione.
Qualora la prospettiva dell’amnistia dovesse consolidarsi, trasferendosi su un terreno di confronto parlamentare tra i diversi schieramenti (ipotesi seguita con attenzione anche dal Quirinale), occorrerebbe tuttavia stare molto attenti al rischio di poco decorosi compromessi. In particolare, al rischio che la pur necessaria ricerca di convergenze politiche finisse per aprire brecce troppo ampie al provvedimento di clemenza, tali da renderne ancora più gravi i profili di obiettivo contrasto con il principio di legalità.
Lungo questa direzione, una volta fissato il limite della pena detentiva massima prevista per i reati oggetto di amnistia (non superiore ai 3 o, forse, ai 4 anni), sarebbe anzitutto importante individuare con chiarezza la serie dei delitti comunque esclusi dal beneficio, ricomprendendovi tra l’altro tutti i reati connessi alla criminalità organizzata, nonché quelli riconducibili alla sfera della pubblica corruzione. In secondo luogo, sarebbe altresì importante condizionare l’amnistia (come suggerito anche da un recente progetto di «radio carcere») all’adempimento da parte dell’imputato o del condannato, delle obbligazioni civili a favore delle vittime, nonché all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Sarebbe questo un modo per attenuare, almeno in parte, l’effetto di sostanziale «ingiustizia» da sempre intrinseco a ogni provvedimento di amnistia.
INES TABUSSO