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LA REPUBBLICA
6 luglio 2007
BARUCH SPINOZA
RIPENSO' DIO E LIBERO' L'UOMO
di EUGENIO SCALFARI
a pag. 56/57

La pubblicazione avvenuta di recente nei "Meridiani" Mondadori dell´opera completa di Baruch Spinoza è un evento importante nella cultura italiana e non soltanto per la vastità degli apparati, la completezza critica dei testi, la qualità dei commenti e in particolare per le introduzioni alle singole opere e per quella generale, dovuta a Filippo Mignini. L´evento sta nel fatto stesso della pubblicazione. Qui ed ora, viene in mente di dire. Perché qui ed ora la filosofia di Spinoza attraversa di nuovo una fase attraente, direi in sintonia con i modi di sentire dell´epoca in cui viviamo; ma sintonia però non consapevole e perciò inadeguata, neppure nella società dei colti e dei filosofi, con alcune importanti eccezioni tra le quali va segnalata quella di Emanuele Severino che di Spinoza è stato da sempre attento e acuto cultore. Il crescere e il tramontare delle filosofie e dei filosofi che le hanno pensate è un attributo permanente è quasi il succedersi di una modalità alla quale sono stati soggetti anche i pensatori più significativi, da Descartes a Hobbes, a Kant, ad Hegel e Schopenhauer a Nietzsche e Heidegger, tanto per restare nel solco della nostra civiltà occidentale. Perfino Platone e Aristotele hanno avuto fasi di luminosità e altre di impallidimento nella memoria collettiva. Ma nessuno ne ha sofferto quanto Spinoza, costretto addirittura a non pubblicare la maggior parte dei suoi scritti che sarebbero comunque incorsi nel sequestro immediato e nell´immediata distruzione, come avvenne per i pochissimi che - lui vivente - videro la luce. Nonostante questo suo silenzio obbligato, fioccarono su Spinoza scomuniche e dannazioni estreme, a cominciare dalla più terribile che gli fu inflitta dalla Sinagoga di Amsterdam, cui seguì l´ostilità dapprima blanda ma poi sempre più intensa fino a diventare furiosa dei circoli cattolici in Olanda, in Francia, in Germania e a Roma. Infine, non meno violenta, la "damnatio" delle Chiese riformate, luterane e calviniste che fossero.
Così anche l´opera postuma ebbe scarsa diffusione e possibilità assai limitate di influire sull´evoluzione del pensiero filosofico, anche se fu conosciuta e tenuta in gran conto da alcuni degli illuministi (pochi in verità) la maggior parte di essi accettando semplicisticamente un teismo al cui approfondimento non dedicarono gran tempo. La scoperta di Spinoza arrivò con l´Ottocento, ad un secolo e mezzo di distanza dall´opera sua. Illuminò quell´arco di anni con intensità ma poi di nuovo rientrò nel silenzio e soltanto di recente ricominciarono segni di attenzione. Bisognerebbe domandarsi il perché di questo interesse così discontinuo e precario. La scrittura rocciosa e "geometrica" delle sue argomentazioni non è certo fatta per accattivare, ma non può esser quello il vero ostacolo se solo si pensa alle non minori difficoltà di lettura e di comprensione di filosofi che hanno tenuto a lungo la scena dell´opinione colta, a cominciare da Kant e a finire con Heidegger. Non credo perciò che sia stato quello l´ostacolo, ma piuttosto un altro e cioè la radicalità del pensiero spinoziano nei confronti della salvezza, dell´antropomorfismo e della centralità dell´uomo nel mondo. Non c´è stata finora filosofia più lontana, più indifferente, anzi più impegnata nella dimostrazione che la nostra specie non può vantare alcun privilegio e alcuna posizione dominante nell´universo. Non solo: non può appellarsi né sperare in alcun Dio che possa assicurarci la salvezza e indicarne il percorso. Ma, nello stesso tempo, una filosofia dedicata alla dimostrazione che "Dio c´è" come si direbbe oggi, ed anzi è presente in tutto e dovunque, eterno e assoluto, unica sostanza esistente, della quale tutto l´universo è pervaso fin nelle sue più intime particelle; ma un Dio indifferente, privo di passioni e di affetti, non vendicativo ma neppure misericordioso; un Dio che nulla ha creato, che non conosce se stesso, che nulla vuole perché non ha volontà; un Dio infinito e assoluto, pura potenza che incessantemente si attua nelle infinite forme naturali. Infine un Dio che è "natura naturante" dal quale esplodono senza interruzione le forme della "natura naturata" ciascuna delle quali fondata sulla legge che scaturisce dal suo proprio fondamento. «Questo tuo Dio è un mostro» gli scrisse uno tra i tanti suoi corrispondenti che cercavano di chiarire a loro stessi il suo pensiero sperando (per loro) che esso potesse almeno esser tollerato dalla Chiesa e dalle Università e quindi pubblicamente discusso e diffuso. «Questo tuo Dio è un mostro». Ma lui, a sua volta, non riusciva a comprendere reazioni così violente e rifiuti così totali. E si accaniva a rispondere, a chiarire il suo pensiero, a definire i soggetti e le idee. La definizione era per lui una vera e propria legge.
«Questo è vero per definizione» diceva, e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinoza ed assume con lui il valore del "Logos", del "Verbo", della "Parola" celebrati nel Vangelo di Giovanni quale "incipit" della Creazione. Solo che per Spinoza credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria; non manipolava una materia a lui esterna, ma attuava la sua potenza, la sua esplosiva potenza che non poteva che attuarsi. Il suo «tutto è Dio» non era concettualmente lontano dal più radicale ateismo. Anche se la parola ateismo non dovrebbe esser lasciata circolare senza una sua definizione.

Convivono nell´opera di Spinoza un aspetto distruttivo ed uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro e necessari entrambi. L´uno non potrebbe darsi senza l´altro; la sua raffigurazione e dimostrazione del Dio come potenza infinita e assoluta, unica e pervasiva sostanza di tutte le cose, non potrebbe infatti procedere senza aver sgombrato il campo dalle raffigurazioni fallaci e «superstiziose» che ingombravano le religioni monoteistiche e in particolare quelle giudaica e cristiana. Secondo il suo pensiero queste raffigurazioni fallaci sono: il Dio incarnato, le attribuzioni a Dio di "affetti" propri della natura umana, i miracoli, la rivelazione nel suo complesso. Insomma le Scritture, a cominciare dal Genesi, i Vangeli e la figura di Gesù-Dio, morto e risorto; Mosè, Abramo e l´Alleanza intesa come percorso verso la salvezza. E comincia dal punto più sensibile, teologicamente e politicamente: quello del Dio fatto uomo. Scrive ad uno dei suoi corrispondenti cattolici, Hugo Boxel: «Questo io so: che tra infinito e finito non si dà alcuna proporzione» e ad Albert Burgh: «Tu mi compiangi e chiami una chimera la mia filosofia. Oh giovane privo di mente. Chi ti ha incantato fino al punto di portarti a credere che tu possa divorare ed avere negli intestini quel Dio sommo ed eterno?». Ma poiché i suoi interlocutori fingono di non capire e continuano ad incalzarlo con petulanti richieste di chiarimenti, alla fine spazientito risponde a Boxel: «Quando dico che ti sfugge quale Dio io abbia se nego che l´atto di vedere, udire, osservare, volere non si danno in Dio, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che sono tipici attributi umani. Ma non mi meraviglio di questo perché credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe egualmente che Dio è triangolare e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa». Questi pensieri assumeranno forma definitiva nell´Etica, la sua opera più completa dove Dio sarà descritto come «la sostanza eterna, infinita e assoluta che non opera con libera volontà né con intelligenza, non ha alcun rapporto personale e diretto con gli uomini né con alcuna altra specie, non è né misericordioso né vindice o giustiziere, non è affetto da gioia né da tristezza. Non vi è pregiudizio più misero di quello che subordina il presunto amore dell´essere infinito alla venerazione ricevuta da una natura finita. Altrettanto meschina è la convinzione di poter modificare i decreti di Dio per mezzo delle nostre preghiere, come si potrebbe fare con un padre un giudice e un re». Dio - per dirla in breve - produce a getto continuo forme in sé perfette, una esplosione di forme, ciascuna determinata e quindi soggetta alla natura della propria forma. Forme moriture come tutto ciò che deriva da una nascita, ma non create da un Dio che abbia utilizzato «altro da sé» o che abbia ordinato un caos preesistente. Le forme prodotte da Dio sono un´eruzione continua il cui fondamento è Dio stesso il quale, attraverso quelle forme, è ovunque e tutto pervade con un´immanenza totale. Il mondo così descritto non contiene dunque una scintilla divina inserita dentro ad una materia altrimenti inerte o caotica ma, al contrario, il mondo è interamente divino e per questo stesso è infinito. Così ragionava l´ebreo Baruch Spinoza, stupefatto di esser definito ateo e dissacratore, lui che descriveva e sentiva la divinità onnipotente, nel filo d´erba e nel serpente, nella stella e nell´uomo, senza colpe, senza peccati, senza necessità di salvezza né di individuale sopravvivenza, salvo sapere che ogni ente esistente e perituro non ha altra pulsione che la sopravvivenza della propria forma e quindi la paura della propria morte per quelle forme capaci di pensare se stesse e la propria mortalità.

L´incontro decisivo che egli ebbe e che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima dell´arrivo in campo dell´autore dell´Etica aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica aprendo la strada alla modernità. Il Discorso sul metodo è stato il punto d´arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia che gli va tuttora debitrice per tre aspetti essenziali del suo pensiero: la scoperta dell´io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l´attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" che riassume in due polarità l´intera moltitudine degli enti recuperandone l´oggettività dopo aver affermato l´egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo. Con questo stipite del pensiero moderno si misurò Spinoza quindici anni dopo la pubblicazione dei Principi di filosofia e la scomparsa del loro autore. In realtà quell´incontro fu inizialmente una sorta di tributo che Spinoza volle pagare alla grandezza innovativa di Descartes, curandone la traduzione dal latino in lingua olandese ed argomentandone le tesi da par suo. Cartesio in quegli anni era preso di mira dalla tradizionale dottrina della Chiesa. Tradurne i testi in una lingua "volgare" era già di per sé un modo di esporsi all´implacabile giudizio dell´Inquisizione; commentarli positivamente, sia pure con qualche timida riserva, significava addirittura sfidare l´ortodossia della Scolastica e attirare su di sé gli anatemi dei Tribunali ecclesiastici. Il pur prudentissimo Spinoza corse questi rischi, anche se mise bene in chiaro che la sua era stata soltanto un´operazione editoriale e culturale e non già lo schierarsi e identificarsi con le tesi di Cartesio dalle quali anzi in più punti dissentiva. Molti contemporanei attribuirono allora quella presa di distanza da Cartesio alla necessità di non approfondire il solco con la Chiesa e con la sua Inquisizione. Ma le cose non stavano così. Il riconoscimento spinoziano della grandezza di Cartesio era senza dubbio genuino, ma altrettanto genuine le sue riserve, in particolare dalla distinzione tra la cosa "estesa" e la cosa "pensante" che Descartes riteneva fossero due sostanze incomunicabili in tutto fuorché nell´essere entrambe una creazione di un Dio trascendente, mentre Spinoza le vedeva come due attributi di Dio riverberati nella nostra specie come "modalità" dell´unica sostanza divina e immanente a tutte le cose. Quanto al "Cogito ergo sum" Spinoza non si è mai espresso in modo esplicito ma dall´insieme del suo pensiero quell´orgogliosa affermazione dell´autonomia dell´io risulterebbe esser stata fatta propria dall´autore del Tractatus. Per arrivare a questa conclusione occorre però forzare il pensiero di Spinoza su un punto assai delicato: quello dell´autonomia delle forme nelle quali si esplica la sostanza divina. In verità Spinoza usa assai poco o per niente la parola "forma" e molto di più usa il termine "res" privilegiando l´estensione rispetto al pensiero. Se ne comprende la ragione: la "res extensa" coinvolge nella propria dimensione tutto l´universo inorganico oltre a quello organico. La "cogitans" invece si limita alle facoltà della nostra specie. Ma questo è un aspetto soltanto quantitativo del problema e quindi non essenziale per le concezioni spinoziane. Per questa ragione io credo che il termine "forma" sia il più appropriato per designare la molteplicità immanente della "natura naturans" nelle sue infinite espressioni. Ebbene: il fondamento di queste forme dell´immanenza sta appunto nelle "modalità" che le distinguono. La modalità è nata perfetta, senza difetti e senza peccato, come Dio l´ha emessa realizzando la sua potenzialità. L´autonomia di quella forma nei suoi "modi" fa dunque parte della sua definizione e per Spinoza la definizione altro non è che legge di natura. Questo ragionamento mi porta a concludere che il "Cogito ergo sum" fu accettato e inserito nel pensiero spinoziano. Semmai, ai suoi occhi, sarebbe bastato scandire il verbo "esse" con la prima persona singolare. L´uomo in quanto individuo era titolato a pronunciare questa affermazione, la sua pulsione di sopravvivenza lo portava a quell´orgoglioso "sum", l´evidenza del vero era interamente presente. Aggiungo per la chiarezza di noi postumi che la distinzione cartesiana tra l´estensione e il pensiero è stata superata non soltanto per le ragioni esegetiche addotte da Spinoza, ma per altre ancor più decisive. La mente pensante altro non è che un´efflorescenza degli apparati cerebrali. Altre volte ho scritto che la mente sta alle mappe cerebrali come la musica sta al pianoforte e le sue "note" stanno ai tasti di quello strumento. Il funzionamento della mente non è mai lo stesso; come le note vanno rapportate di continuo alla tensione delle corde che le producono. Ne segue che al funzionamento della mente, cioè del pensiero, cospirano tutti gli organi del corpo e non soltanto il cervello. Il quale riceve dagli altri organi, tramite i flussi sanguigni e i terminali nervosi, sensazioni ed elementi in misura diversa di tempo in tempo. La quantità di ossigeno non è mai la stessa, le tossine provenienti dal fegato, dall´intestino, dai reni, non sono mai le stesse e mai gli stessi gli ormoni, gli enzimi, i flussi endocrini. La mente insomma è parte integrata nel corpo, ne è determinata e a sua volta lo determina; sicché nel corpo individuale tutto è al tempo stesso esteso e cogitante, che è poi la stessa tesi spinoziana raggiunta attraverso la fisiologia moderna anziché attraverso le tesi filosofiche dell´immanenza della natura divina.

Non è certo questa la sede per rivisitare compiutamente la filosofia di Baruch Spinoza, per la quale si può adottare la conclusione di Filippo Mignini a chiusura della sua introduzione generale: «È stato uno dei rari spiriti che nella storia del mondo hanno ideato per qualunque uomo di ogni religione e cultura un percorso di illuminazione e di libertà». Mi sembra invece interessante mettere in luce i nessi tra lui e il principale tra i pensatori che l´hanno scelto come compagno e maestro. Parlo di Federico Nietzsche, il filosofo che chiude il ciclo della filosofia moderna smantellando il platonismo e le religioni, decostruendo e anzi capovolgendo la scala tradizionale dei valori ed elaborando una visione del mondo, della conoscenza e della civiltà che approda al superamento dell´io e di ogni assoluto. Nietzsche fu più un artista e una «voce» che un filosofo nel senso tradizionale della parola. Raccontò il suo pensiero. Parlò per enigmi, per aforismi, per frammenti, per simboli. Dopo di lui sarebbe impossibile scrivere un trattato o un manuale di filosofia. I pochi che hanno tentato ancora di farlo hanno solo dimostrato la loro irrilevanza. Ma Nietzsche non può esser compreso se non si risale a Spinoza. L´autore del Tractatus e dell´Etica può apparire, se si bada alla forma della sua scrittura, esattamente agli antipodi dell´autore di Zarathustra. Invece basta ascoltare lo stesso Nietzsche per comprendere di quale spessore fosse la consonanza dei loro pensieri. Nietzsche s´imbatté (è il caso di usare questa parola che contiene un elemento fortuito) in Spinoza negli anni Ottanta del suo secolo, ne rimase sconvolto e così ne scrisse all´amico Overbeck: «Sono pieno di meraviglia e di giubilo: ho un precursore, e che precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza. Per "istinto" ho desiderato di leggerlo. Questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia mai esistito, è il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio, la finalità, l´assetto morale del mondo, il non-egoismo, il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi differenze, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. Insomma la mia solitudine - che come capita in montagna alle grandi altitudini, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori - è ormai una solitudine in due». Non ci poteva essere elogio maggiore e più lucida identificazione. Ma resta, al di là delle differenze dovute ai diversi contesti storici dei tempi, della cultura e della scienza, che l´autore di Zarathustra chiaramente individua, un approccio che pone Nietzsche in una prospettiva diversa anche nei confronti di Spinoza, rispetto alla intera storia della filosofia occidentale da Platone in poi, ed è il rapporto con l´assoluto. Con la verità assoluta. Con la divinità assoluta. Spinoza è infatti il più radicale assertore dell´assolutezza della verità e della divinità dell´immanenza, "sive natura". Dell´essere parmenideo, presente in tutti gli enti che da quell´essere scaturiscono. E della conoscenza che l´intelletto individuale può averne. Per Nietzsche al contrario il solo approccio valido alla conoscenza ha il suo fondamento nell´interpretazione.
L´interpretazione è il suo Logos, il suo Verbo, la sola ed unica realtà. L´essere nietzscheano non è quello di Parmenide ma quello di Eraclito per quel tanto che sappiamo di lui; non è lo stare, ma il divenire, il flusso, la rappresentazione prismatica dell´universo. Quando, nella lettera a Overbeck, Nietzsche enumera le cinque argomentazioni di Spinoza nelle quali egli si riconosce interamente, compie a mio avviso un errore auto-interpretativo: afferma, come Spinoza, di negare il valore morale del mondo. Ma sbaglia. Il mondo nietzscheano è un mondo morale proprio perché ogni interpretazione contiene la sua propria moralità. Proprio perché il relativismo nietzscheano nega l´assoluto ma rifiuta il nichilismo. Diciamo dunque che neppure Spinoza riesce a liberarsi dalla metafisica come - dopo Nietzsche - recuperano una sorta di metafisica tutti quei pensatori che riproposero l´essere alla base della loro concezione. Nietzsche è stato il vero solitario in questo punto capitale del pensiero, è stato l´unico ad aver descritto la realtà come una polifonia interpretativa il cui fondamento risiede nello sguardo dell´interprete. Dopo Nietzsche resta in piedi una sola domanda: può l´interprete interpretare anche se stesso?
Domanda fondamentale, cui non si può dare risposta se, prima, non si definisca la parola interpretazione e il soggetto che la pronuncia. Una definizione. Ecco che ancora torna in scena Spinoza e il valore che egli attribuisce alla definizione.
Vedete? Il Logos, il Verbo, la Parola, la parola-chiave, l´Interpretazione, l´Interprete....
Scrive Giovanni all´inizio del suo Vangelo: «All´inizio ci fu il Logos e il Logos era accanto a Dio, il Logos era Dio». Se non ci fosse il relativismo nietzscheano, saremmo di nuovo in piena metafisica.





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